Anche nella Grande Mela il problema pare sia quello del corretto uso del respiratore meccanico. (La ricerca pubblicata su The Lancet dimostra che si può fare ricerca mentre si è strettamente operativi).
Nella ricerca si riporta sulla gestione e sugli esiti di 257 pazienti in condizioni critiche (86 [33%] donne e 171 [67%] uomini, mediana età 62 anni) ricoverato in unità di terapia intensiva e di dipendenza in due ospedali di New York per un periodo di 4 settimane. Nei risultati un grande ruolo è dettato dalle co-morbilità, ma il problema individuato consiste, come nelle esperienze italiane, nella gestione della ventilazione meccanica. Ma è anche vero che l’obesità che può aver influenzato le proprietà meccaniche del sistema respiratorio. I risultati sottolineano che la gestione ottimale della ventilazione meccanica nei pazienti con COVID-19 e insufficienza respiratoria acuta rimane scarsamente compresa.
In effetti la ricerca lascia in sospeso sulle modalità per personalizzare il trattamento del paziente: quali strategie iniziali di supporto respiratorio non invasivo? quale tempistica dell’intubazione? Quale regolazione ottimale della ventilazione meccanica e all’efficacia e sicurezza degli agenti immunomodulanti e strategie anticoagulanti?
Oltre l’obesità co-morbidità comuni sono state ipertensione (162 [63%]), diabete (92 [36%]), malattie cardiovascolari croniche (49 [19%]), malattie renali croniche (37 [14%]) e malattie polmonari croniche (24 [9%]). 203 (79%) pazienti necessitavano di ventilazione meccanica invasiva, la conformità del sistema respiratorio mediano era bassa (27 ml / cm di acqua) e tutti i pazienti richiedevano un’alta frazione di ossigeno inspirato nonostante avessero livelli relativamente elevati di pressione positiva di fine espirazione (mediana 15 cm acqua).
Lo studio mostra che la malattia è caratterizzata da un’alta mortalità (101 [39%] dopo un follow-up minimo di 28 giorni) e da un decorso clinico prolungato, come dimostrato dall’alta percentuale di pazienti ancora in ospedale (94 [ 37%]) alla fine del follow-up.
Sembra che non ci siano differenze per sesso. L’associazione della mortalità a concentrazioni più elevate ( IL-6 e D-dimero ) è particolarmente rilevante per due motivi. In primo luogo, conferma il ruolo patogeno chiave svolto dall’attivazione dell’infiammazione sistemica e del danno nello sviluppo della disfunzione d’organo. In secondo luogo, fornisce la logica per la progettazione di studi clinici per misurare l’efficacia del trattamento con farmaci immunomodulanti e anticoagulanti.
Lo studio conferma che COVID-19 è caratterizzato da un’alta incidenza di disfunzione multipla d’organo, come dimostrato dalla percentuale di pazienti che richiedono vasopressori (170 [66%]) e terapia di sostituzione renale (79 [31%]). Per quanto riguarda i trattamenti farmacologici, gli agenti antibatterici sono stati somministrati empiricamente a quasi tutti i pazienti in condizioni critiche (229 [89%]) e l’idrossiclorochina è stata somministrata a 185 (72%), mentre i corticosteroidi e gli antagonisti del recettore dell’interleuchina-6 (IL-6) sono stati somministrati a meno pazienti (68 [26%] hanno ricevuto corticosteroidi e 44 [17%] hanno ricevuto antagonisti del recettore IL-6). Non sono disponibili dati sui cambiamenti temporali dei marker infiammatori nei pazienti sottoposti a trattamenti immuno-modulanti. Inoltre, non vengono fornite informazioni sulle strategie delle terapie anticoagulanti, che sono particolarmente interessanti data l’elevata incidenza di complicanze tromboemboliche associate a COVID-19.